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Tra le isole del Golfo di Napoli Procida è forse quella che più ti rimane nel cuore. Opinione personale, certamente, e opinione influenzata dal tempo che, scorrendo, diluisce i contorni delle cose e lascia, più che immagini nitide negli occhi, sensazioni e strane nostalgie nel cuore e nello stomaco. Eppure l’impressione è che la meno turistica, nel senso più scontato del termine, la meno mondana e la meno “moderna” tra le perle dell’arcipelago partenopeo sia quella in cui, alla fine, vorresti tornare. Questo non per ragioni che implichino confronti con le “vicine” Ischia o Capri, ma per l’impossibilità di ingabbiarla in una definizione unitaria o in uno slogan di facile circolazione; questo perché Procida è uno di quei luoghi silenziosi, magici e senza tempo che ti fanno intravedere dimensioni e modi di vivere antichi, dimenticati o quantomeno lontani dalle nostre esperienze quotidiane.
“Procida non è solo trionfo di luce e mare, ha come ogni altro luogo la sua storia, che qui è fatta di venti, di acqua e di fede” ha scritto Monsignor Fasano. Fede religiosa, certamente, come testimoniato dalla splendida abbazia di San Michele Arcangelo con le sue catacombe, che sorge ad un’altezza di circa 91 metri sul livello del mare e che assieme al vecchio carcere occupa la Terra Murata, ossia la parte più elevata dell’isola, ma anche una fede diversa, più arcaica, se possibile, e certamente trasversale ai vari culti e alle varie culture. Quella nell’immutabilità delle cose, quella nell’eterno succedersi delle stagioni, quella di un pescatore che ogni mattina all’alba affronta il mare sapendo che in esso troverà il proprio sostentamento e la propria ragione d’essere.
Lo si capisce subito, appena si mette piede sull’isola. Lo capiscono i turisti che ogni anno visitano, ma fortunatamente non affollano, le splendide insenature della Chiaiolella, del Carbonchio, del Pozzo Vecchio, le sue spiagge incontaminate, le sue viuzze che si inerpicano sulla collina tra due file di case attaccate l’una sull’altra e le sue ricchezze storiche e culturali. L’hanno capito, nel corso dei secoli, le popolazioni che l’hanno abitata e vi hanno lasciato tracce indelebili del proprio passaggio: dai Calcidesi, i primi colonizzatori di Procida nell’ottavo secolo a.C., ai Siracusani; dai Greci, la cui presenza è testimoniata dalle tombe a tetto spiovente ritrovate presso la località denominata Campo Inglese e dal nome stesso dell’isola che secondo gli studiosi deriverebbe dal greco Prochyta (cioè “bassa” rispetto alla vicina Ischia), ai Romani che, fedeli al culto di Bacco dimostrato dai capitelli, dai rocchi di colonna e dai frammenti di scultura ritrovati, consideravano Pithecusae (altro antico nome dell’isola, tramandatoci da Plinio) un luogo di delizie e di otium. L’hanno capito, purtroppo, anche le orde che, a più riprese, hanno visto in Procida un prezioso bottino da saccheggiare: dai Saraceni, che nel Medio Evo riservarono lo stesso destino anche alle altre isole e città del Golfo di Napoli, ai Pirati d’Africa che la “visitarono” durante la dominazione spagnola, senza dimenticare le tre occupazioni inglesi e quella francese. L’hanno capito, infine, artisti e scrittori che hanno trovato negli scenari senza tempo di Procida l’ispirazione e lo sfondo per i loro capolavori. Il francese Alfonse De Lamartine, ad esempio, che ha fatto della donna procidana un emblema di bellezza e coraggio: ancora oggi, infatti, nel corso della Sagra del Mare la sua Graziella viene rieletta ogni anno tra le giovani del luogo. O Elsa Morante, che soggiornandovi con il marito Alberto Moravia e rimanendo stregata dal fascino selvaggio dei suoi scorci, ha ambientato a Procida il suo capolavoro “L’isola di Arturo”, splendide pagine che trasmettono ai lettori un’immagine mitica di questo angolo di mondo e dei suoi abitanti e che ogni anno vengono ricordate dal prestigioso premioletterario “Elsa Morante-L’isola di Arturo”.
Altra occasione da non perdere per gli appassionati di cultura e tradizioni popolari sono le celebrazioni religiose della Settimana Santa, quelle del Giovedì e Venerdì Santo in particolare, momenti di particolare suggestione e tensione religiosa, ma anche il risultato di un lungo lavoro che da sempre vede coinvolti per mesi migliaia di cittadini.
Sono ancora molti i motivi per cui, in ogni momento dell’anno, ma ancor di più nei mesi tradizionalmente meno “vacanzieri”, vale la pena di scoprire i ritmi lenti di Procida: i tesori archeologici e la rigogliosa vegetazione mediterranea dell’oasi protetta di Vivaro, il piccolo lembo di terra collegato all’isola maggiore da un ponticello artificiale, o i pendii ricoperti di vigneti, aranceti e vigneti della collina di Cottimo, la stessa in cui il regista Massimo Troisi ha ambientato gran parte de “il Postino”, il suo ultimo film e il suo struggente messaggio di commiato.